Ucraina, primo processo contro soldato russo – Soldato ventenne ammette la propria colpevolezza nell’uccisione di un civile

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In questi giorni, gli ultimi aggiornamenti che provengono dal fronte della guerra in Ucraina mostrano immagini differenti rispetto a quelle alle quali ci stiamo tristemente abituando. Le prime pagine dei titoli di giornale e i reportage dei principali notiziari nazionali e internazionali si stanno infatti concentrando su quello che viene considerato come il primo processo a carico di un soldato russo. Da quando il conflitto ha preso inizio è la prima volta che si verifica una simile procedura. La pesante accusa a carico dell’imputato è di avere deliberatamente ucciso un civile disarmato. Non si tratta, perciò, della morte di una soldato ma, appunto di un sessantenne che, secondo quanto riportato dalla moglie, sarebbe stato colpito mentre in sella alla sua bicicletta cercava di fuggire dopo avere visto l’avanzata di reparti militari russi. Come si sa, se pur dolorosa la morte eventuale di un soldato va messa in preventivo, rientrando nella natura della guerra stessa. Al di là del povero uomo rimasto ucciso, ciò che di questo particolare faccenda colpisce è la giovane età dell’accusato, un ragazzo di una ventina di anni attentamente ripreso dalle telecamere mentre mostra uno sguardo impaurito e intimorito. I costi della guerra, in merito al carico di vite sacrificate, sono sempre atroci, e dalla storia dei tempi, nessun conflitto che si rispetti ha mai fatto eccezione. Negli ultimi cento anni, la spettacolarizzazione dei fronti di guerra ha fatto la sua importante comparsa aggiungendo un elemento di novità non meno determinante della stessa evoluzione delle tecniche e delle armi militari impiegate. Dal Novecento ad oggi l’avvento delle moderne tecnologie, dalle macchine fotografiche ai primi filmati, fino alla televisione e alle video camere, ha apportato a favore dei belligeranti quell’arma in più che in taluni casi potrebbe perfino riuscire a fare la differenza. Ciascuno dei protagonisti sa di dover usare sapientemente il materiale visivo nella maniera che si dimostrerà per sé più vantaggiosa. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la propaganda inglese non esitò ad utilizzare propagandisticamente le foto che ritraevano Rudolf Hess, numero due del Regime nazista e figura più importante subito dopo lo stesso Fuhrer di Germania Adolf Hitler nelle gerarchie del Terzo Reich. Hess era stata fatto prigioniero in Scozia in seguito ad un rocambolesco volo con il suo paracadute durante un suo personale viaggio, intrapreso tenendone all’oscuro il Fuhrer, allo scopo di avviare una trattativa vantaggiosa per i Tedeschi e per gli stessi Inglesi. La sua impresa finì nella peggiore delle maniere. Il paracadute con il quale si era temerariamente lanciato finì per cadere assieme a lui in mezzo ai campi di una sconosciuta località scozzese. Gli Inglesi non ci pensarono nemmeno un attimo e decisero che le immagini di Hess prigioniero, con il racconto dettagliato dell’intera grottesca vicenda, potesse rappresentare il modo migliore per caricare l’umore dei propri soldati e, al contrario, offrire un’immagine di debolezza del Terzo Reich. Stando il parallelismo, oggi possiamo unanimemente sostenere che l’immagine di quel giovane soldato non ci dà però lo stesso entusiasmo che invece aveva acceso l’umiliante cattura di Hess nel 1941. Sotto ai nostri occhi, per la verità, ci pare piuttosto di vedere un’altra vittima del conflitto, assomigliante piuttosto ad un vero e proprio agnello sacrificale. Quel ragazzino, che potrebbe essere nostro figlio o uno dei tanti ragazzi che occupano i banchi delle nostre aule scolastiche, ci turba e crea un certo disagio. Più che un criminale incallito, in quelle riprese scorgiamo una giovane vita smarrita e terrorizzata egli stesso vittima, pur essendo a sua volta reo di un omicidio, e lo è poiché, per ben due volte, è stato strumentalmente usato in barba ad ogni possibilità di vivere un’esistenza normale. A sacrificarlo alle esigenze della propaganda interna, sono stati per primi gli uomini al comando del suo paese di origine, la Russia, che non hanno esitato a creare per lui un nemico da combattere che avrebbe dovuto imparare a odiare. Per secondi, e non meno colpevoli, i rappresentati dei vertici politici della stessa Ucraina, i quali non meno discutibilmente hanno offerto in pasto agli appassionati telespettatori di questa guerra l’immagine mortificante di un ragazzino da criminalizzare quale strumento di espressione della propria forza e di una idea di vittoria non più così impossibile.

  • L’articolo è il risultato di un acceso confronto avvenuto durante la lezione di Educazione Civica da parte degli studenti del biennio finale del Corso del Liceo delle Scienze Umane a indirizzo Economico Sociale dell’Istituto scolastico Accademia Avvenire.
  • Gli studenti intervenuti al dibattito hanno sollevato alcuni dubbi circa le modalità, a loro dire discutibili, di questo pubblico processo nei confronti di un loro sostanziale coetaneo.
  • Ci si è interrogati cercando di definire fino a che punto possa essere eticamente accettabile utilizzare prigionieri, oggi come ieri, quali mezzi di propaganda nelle guerre senza che questo violi i diritti fondamentali dell’uomo figli della tradizioni illuminista e sulle cui basi è stata costruita la nostra società occidentale e la stessa Organizzazioni delle Nazioni Unite (ONU).
  • A conclusione della animata discussione, è apparso significativo come, fra i partecipanti al dibattito, qualcuno abbia voluto ritornare alle parole di Albert Einstein il quale, già nel bellicoso secolo scorso, aveva lucidamente sostenuto come umanizzare la guerra fosse impossibile. “La guerra” diceva “si può solo abolire”.